Home » News » Debate:how to burst the real-estate bubble? » Dove vola l’avvoltoio?

Mostra/Nascondi il menu

Dove vola l’avvoltoio?

In Internazionale, Marzo – Aprile 2009

Discussioni:

1-) Immobiliare: private equity, al via il fondo dei fondi!

2-) Accordo Fiat e Chrysler: quale è il costo per i lavoratori e pensionati?

Per Vincenzo Simoni – primo maggio 2009.

1-) Immobiliare: private equity, al via il fondo dei fondi!

L’articolo di Evelina Marchesini sul Sole24Ore del 3 marzo 2009 è di ostica decifrazione infarcito per come è di una sequenza di termini anglosassoni la cui traduzione è spesso distante da quella letteraria.

“Private equity” ha poco a che vedere con la moderazione dei privati; “advance capital” forse si riferisce a soldi che avanzano, ma non ne siamo sicuri; i “global opportunities real estate fund”, potrebbe riferirsi ad occasioni assolutamente da non perdere!

I crediti immobiliari “distressed” ( depressi o addirittura esauriti) sarebbero, per l’articolista, crediti il cui valore di mercato è inferiore almeno dell’80% rispetto al loro valore nominale”! “Gli asset under management” potrebbero corrispondere a disponibilità finanziarie controllate dal “gestore”. Lo “special advisor” è un personaggio che abbiamo incontrato in ogni piano di vendita immobiliare di grandi dimensioni ma questo “adviser” ha delle attribuzioni molto più vaste di quello di un “consigliere tecnico”.

Ritornando ai fondi di private equità se ne occupò circa due anni fa Giorgio Turani (Repubblica); erano il “vero potere”, quello che dividevano una azienda per venderla meglio, che potevano intervenire su un intero comparto industriale. Ma dopo tutto il blaterare su questo nuovo potere forte, anzi fortissimo, Turani non diceva nulla sull’origine dei soldi. Erano dei “cavalieri solitari ricchissimi”.

Sul Sole24Ore del 3 marzo finalmente qualcosa di meno fantasioso: il “fondo dei fondi” è proposto da Advanced Capital il cui presidente e amministratore delegato è un certo Robert J. Tomei (sedi a Milano ma soprattutto a Lugano e Lussemburgo). La società (Advanced Capital SA) costituita il 23 giugno 1993 a Lugano, via Magatti 1, aveva come persone iscritte oltre il Tomei un certo Lucio Velo (svizzero-napoletano) di cui s’era occupato “Avvenimenti “ in un corposo articolo del 20 luglio 1995. Velo allora appena quarantaquattrenne, legato a Tettamanti (il Tettamanti collegato a Roberto Calvi e Michele Sindona) era il fondatore della Banca Arner (già Karfinco) in cui gli uomini di Publitalia ( la cassaforte di Fininvest) sceglievano di depositarvi i loro risparmi (!).

Velo coinvolto in inchieste scottanti scompare dai motori di ricerca. Riappare Tomei, che nella biografia accessibile in Who’s who dell’Università Cattolica del sacro Cuore, perde ogni collegamento con Velo, diventa advisor internazionale, partner (?) della Paul Capital Partners (fondata nel 1991 da Philip Paul, con il “contributo” dei fondi pensione di AT&T, Du Pont, Hughes Aircraft, Bank Boston e Hower Huges Medical Institute e prima ancora consulente in Merril Lynch International.

Ma ormai è acqua passata. L’operazione “fondo dei fondi” è nel salotto buono (pecunia non olet); Mediobanca nel cui Cda è entrata Marina Berlusconi, presidente di Fininvest e figlia del premiere, sarà global coordinator per il collocamento in Italia e all’estero, Usa esclusi. Qui opererà un certo Rèal Desrochers (ex UBS), che fino a febbraio era a capo degli alternative investiments per i fondi pensione degli … insegnanti della California. Mica spiccioli: 110 miliardi di dollari gestiti.

Dopo tutta questa tiritera andiamo al dunque. Tomei non ha scrupoli nel descrivere la sua strategia:

“ Il fondo si rivolge solo ad investitori qualificati e coglierà le opportunità che la crisi ha creato nel settore immobiliare, dove i prezzi sono scesi fino al 25% medio negli Usa e dove i crediti immobiliari distressed (…) quotano con il 40-50 % di sconto. In pratica il fondo investirà in modo selettivo in 15-20 fondi di private equità (…) cominciando per i primi 24 mesi con quelli focalizzati sugli strumenti di debito negli Stati Uniti. “. “ Ci muoveremo rapidamente” conclude Tomei, “ sincronizzandoci allo sfasamento del settore immobiliare”.

Dovrebbe essere musica per i cosiddetti investitori qualificati che per il Sole 24 Ore sono “clienti illustri nel gotha dell’imprenditori italiana (Benetton, Fininvest, Merloni, Coin).”

Merloni? O non faceva blocco nelle Marche con i lavoratori a spasso e i magazzini pieni di elettrodomestici invenduti e tutti insieme a Roma da Scaiola? E a Benetton non bastava l’introito ultrasicuro dei pedaggi autostradali?

Nessuna contraddizione tra economia reale e finanza d’assalto. L’immobiliare, che è altra cosa dal muratore, viaggia, va dove può affondare meglio il coltello: e quale miglior boccone del colossale crac immobiliare nordamericano! E negli Usa c’è però chi funziona da capofila, traslocando da un “fondo” pensione ad un altro impiego e per quella porta bisogna passare.

Questa nota viene inviata a: San Francisco Tenants Union

Ne facciano il miglior uso!

2-) Accordo Fiat e Chrysler: quale è il costo per i lavoratori e pensionati?

Non vi aspettate una chiarificazione in proposito dal Corriere della Sera, dalla Stampa e nemmeno dal Giornale. E’ un coro laudativo per Marchionne.

Se volete capire dovrete darvi da fare e non sarà facile. Sull’adesione all’accordo da parte dell’UAW, il potente (?) sindacato dell’auto informa con poche righe che i dirigenti l’hanno approvato all’unanimità, che nella notte del 30 aprile è stata accettata a Detroit dall’82 % dei lavoratori e che Obama ha elogiato la responsabilità dei sindacati per “i grandi sacrifici” imposti ai lavoratori.

Quali sacrifici? Non se ne trova traccia sulla nostra stampa ma nemmeno nel sito della Fiom nel quale il segretario nazionale Rinaldini apprezza l’accordo con qualche riserva sugli effetti per le sedi italiane della Fiat. Se si va sul sito UAW c’è poco; i particolari arrivano da redazioni locali che vanno tradotti dall’inglese e da questi finalmente il quadro diventa più chiaro.

Il bottino viene prelevato dal fondo pensione dei lavoratori. La Chrysler si impegna a versare in tranche che vanno fino al 2023 (!) solo il 50% del debito, cioè 5 miliardi invece di 10 miliardi di dollari. I pagamenti saranno così articolati:

  • nel 2010 e 2011 saranno versati 300 milioni di dollari; 400 milioni nel 2012; 600 milioni nel 2013; 650 milioni all’anni dal 2014 al 2018, che salgono a 823 nel periodo 2019 – 2023.

In cambio il fondo pensione si accolla azioni Chrysler enormemente svalutate e ottiene per questo un posto del neo Cda. Il sindacato UAW nell’assetto in corso otterrebbe il 55% delle azioni, contro il 35% di Fiat e il 10% del governo USA che si riserva la nomina dell’AD.

Altre clausole:

- in caso di licenziamento l’ombrello protettivo (che è comunque transitorio) passa dal 100% al 50% della retribuzione lorda di base;

- gli straordinari vengono corrisposti solo dopo 40 ore lavorate in ciascuna settimana – salta la perequazione;

- nessun adeguamento dei salari al costo della vita fino alla scadenza del prossimo contratto (2011);

- drastica riduzione delle prestazioni sanitarie e una minore copertura globale;

- sospeso il bonus di Natale (la nostra tredicesima);

- impegno a non scioperare per i prossimi 4 anni;

- una clausola di arbitrato in caso di non accordo alla scadenza del 2011 che fisserebbe la base contrattuale sulla media dei costi orari dei concorrenti Chrysler compresi i produttori stranieri.

Tali condizioni sono assunte come riferimento contrattuale dall’UAW anche nelle trattative con GM e Ford. Le posizioni della UAW sono state così riassunte dal vicepresidente Gettelfinger: “ Abbiamo lottato per mantenere un certo livello salariale, la sostanza della nostra assistenza sanitaria e i posti di lavoro. Di fronte alle avversità abbiamo ricevuto precise garanzie per un nuovo prodotto e abbiamo l’opportunità di coinvolgimento nelle future decisioni di bussines “.

Il governo Obama, incassato l’accordo sindacale, si impegna a sostenere la Chrysler con un nuovo prestito che può arrivare fino a 6 miliardi di dollari. Obama ha tentato di ottenere una riduzione dei crediti che le banche (J. P. Morgan, Citygroup, Goldman Sachs e Morgan Stanley), esigono da Chrysler (da 6,8 miliardi a 2 miliardi di dollari); operazione fallita per l’opposizione di un pool di creditori minori che vantano 1,5 miliardi di dollari. Pare che questa indisponibilità stia innescando la procedura di bancarotta “pilotata”.

Resta da dire qualcosa sul piano industriale di Marchionne; sull’argomento le notizie sono più circostanziale: ci si orienterebbe ad un riconversione progressiva del parco macchine USA, con vetture di minore cilindrata, adatte alla situazione di crisi delle famiglie.

E’ una ipotesi che qualche fondamento può averlo, sempre che il mercato di questo paese vada verso una stabilizzazione reale in termini di occupazione e di indebitamento. E’ su questa prospettiva – supportata da un presidente di “fiducia” – che i sindacati hanno ottenuto un vasto, anche se sofferto, consenso dei lavoratori.

Per quanto riguarda lo sbarco degli italiani negli USA le motivazioni sono leggibili:

- gli USA sono in sé e per sé un enorme mercato;

- la riduzione dei valori immobiliari, finanziari e del capitale fisso rendono appetibile questo sbarco;

- il panico sindacale costituisce un ulteriore valore aggiunto: per salvare il salvabile la loro cassaforte dimagrisce a vantaggio dei nuovi (?) operatori.

Ma sono Italiani davvero ?

Questa rischia di essere una illazione depistante. Marchionne non ha i capitali necessari per conquistare gli USA; non è in grado di farlo nemmeno con la OPEL e i tedeschi lo hanno avvertito! Mi pare che altro stia avvenendo, tutto concertato di qua e di là dall’Atlantico. Come avviene da diversi decenni.

Per quanto riguarda la posizione di Obama, si potrebbe andare tranchant dicendo che a questa nuova accattivante figura riesce quello che mai avrebbe osato l’odiatissimo Bush. Troppo schematico: negli USA da tempo si confrontano almeno due tesi dominanti: quella di chi ha sostenuto il debito per garantire a larghi strati della popolazione un tenore di vita non supportato dalla produttività competitiva e chi, inascoltato per decenni, ha tentato di riorientare la politica economica su diverse basi tecnologiche e nella prospettiva di una rafforzata coesione sociale.

Non ci aiuta nemmeno per capire lo spessore di queste due tendenze, a loro volta disarticolate, definire l’una come tardo-imperialista e l’altra come neo-isolazionista. Parole inconsistenti per un pianeta che si sta componendo in macroregioni e che riflette su se stesso, non solo nell’opposizione delle masse (che per ora si esprime solo nell’America Latina e in modo molto particolare nell’Islam) ma anche nel travaglio di tutti i suoi gruppi dirigenti.

Vi confesso che entrare in questo apparentemente indecifrabile movimento è emozionante.

Vincenzo Simoni – primo maggio 2009.